domenica 17 marzo 2013

Le elezioni presidenziali in Kenya


Internazionale 991
15 marzo 2013 - pag.40
Uhuru Kenyatta è il nuovo presidente del Kenya. Con il suo vice, William Ruto, è riuscito a convincere più del 50 per cento dei keniani che con la sua coalizione al potere ci sono buone probabilità che la Rift Valley viva un lungo periodo di pace. Gli elettori sono consapevoli di questo.

I mezzi d’informazione internazionali forse non l’hanno capito. Per metà degli abitanti del paese questo voto è stato una scelta di sicurezza. Nessuno, per esempio, crede che la Corte penale internazionale – pronta a processare Kenyatta e Ruto per crimini contro l’umanità – abbia intenzione di andare !no in fondo. E che conosca a sufficienza la politica keniana.

Il nostro paese non è, e non è mai stato, uno di quei paesi di cui ama parlare la Cnn, tenuto insieme con la colla, gli spilli e il paternalismo dell’occidente. Tre anni fa ci siamo andati vicino. In Kenya c’erano bar che si chiamavano Ocampo, come il procuratore della Corte penale. C’era una grande fiducia nella giustizia globale. Il procuratore Luis Moreno Ocampo si sarebbe paracadutato qui con il suo seguito di investigatori internazionali per portare via i colpevoli e processarli e noi saremmo stati a posto.

Che ingenuità. Oggi c’è la possibilità reale che nessuno di quei processi finisca come vorremmo. Abbiamo visto come si è comportato in passato quel tribunale e non ci fidiamo più. Ha sbagliato con la Repubblica Democratica del Congo. E ancora di più con il Sudan. Quando eravamo più vulnerabili, è arrivato qui come un ciclone. Ora la Corte penale internazionale sembra impotente. Ma, soprattutto, sembra che voglia usare il Kenya per legittimarsi come istituzione internazionale.

E noi non ci teniamo a partecipare a questi esperimenti. Naturalmente intendiamo collaborare con la Corte. Ma siamo in molti a non credere più in quell’istituzione. Secondo me, dovrebbe rivedere la sua organizzazione e tornare quando sarà cresciuta e avrà condannato qualcuno che non sia africano.

Il Kenya è un posto reale, con una politica reale. Negli ultimi cinque anni, ci siamo resi dolorosamente conto che la crisi del 2007-2008 – quando gli scontri postelettorali provocarono 1.200 morti – ha aperto la possibilità che il Kenya fosse trasformato in una repubblica delle banane dai suoi preoccupati partner economici.

Abbiamo imparato, dalla nostra storia e da ciò che è successo negli ultimi tempi nel continente, che la Corte penale internazionale è molte cose, ma è anche la nuova congrega di missionari che viene a salvarci da noi stessi con lo sguardo pieno di compassione e la Bibbia in mano.

Per 45 anni, nel bene e nel male, il Kenya è rimasto stabile, ha pagato i suoi stipendi, in certi periodi ha zoppicato, in altri è andato a gonfie vele. La crisi umanitaria seguita alle elezioni del 2007 è stata un territorio inesplorato, un momento in cui è stata messa in dubbio la nostra stessa esistenza, come è capitato a tanti paesi del mondo. Abbiamo smesso di essere ingenui, abbiamo smesso di dare per scontato che dovevamo lottare per la nostra esistenza e la nostra vitalità. Abbiamo imparato, e continuiamo a imparare. Siamo felici, molto felici, di vivere in un mondo sempre più multipolare.

Ora che la nostra economia ha ripreso a crescere stringeremo altre alleanze con altri paesi. Sono passati i tempi in cui gli ambasciatori europei dicevano ai keniani cosa dovevano fare e perché. Non vediamo l’ora di stringere rapporti più solidi con l’India, di intensificare gli scambi con la Cina e con il Brasile.

Non vogliamo più essere il bel paese delle spiagge e dei safari che abbiamo accettato di essere per troppo tempo. L’occidente dovrà aspettarsi un atteggiamento più deciso da parte del nuovo governo.


Questo è uno dei motivi per cui Uhuru Kenyatta ha vinto le elezioni. Il suo avversario, Raila Odinga, ha contestato il risultato elettorale. Il suo partito si appellerà alla corte suprema del Kenya. È una bellissima notizia. Lasciamo che il nostro processo elettorale sia esaminato da un tribunale. Lasciamo che la nostra democrazia cresca e si raffoorzi. Se sarà un tribunale a confermare il diritto alla presidenza di Kenyatta, non mi dispiacerà.

Ci sono molte domande che potremmo farci su queste elezioni e sui nostri nuovi leader. Ma per me, il risultato più importante del voto è che nessuna delle principali coalizioni potrà calpestare i diritti dell’altra o i nostri. Se non riuscirà a unire il paese, Kenyatta fallirà. E anche se userà il potere per portare avanti gli interessi di alcuni gruppi etnici a spese del resto del paese, soprattutto del Kenya occidentale e della costa.


Queste elezioni hanno spazzato via molti rami secchi. Sono arrivati centinaia di giovani politici coraggiosi di tutte le regioni del paese e molte donne. Sono ottimista, anche se so che come in ogni giovane democrazia ci sarà un po’ di confusione e qualche collaborazione imbarazzante. Ma soprattutto, sono sollevato all’idea che sia finita, voglio solo la pace. Oggi voglio dire: bravo Kenyatta, prometti bene. Domani ricomincerò a prenderlo in giro su Twitter. Sono già stanco di fare la faccia contenta, voglio solo la pace.


di BINYAVANGA WAINAINA scrittore e giornalista keniano, vincitore del Caine prize for african writing. Ha pubblicato il libro One day I will write about this place (Graywolf Press 2011) e dirige il Chinua Achebe center for African writers and artists del Bard college, negli Stati Uniti.

mercoledì 7 novembre 2012

Informatica in Sud Sudan: Mahtere, Kariobangi, Korogocho: un crescendo di mi...

Informatica in Sud Sudan: Mahtere, Kariobangi, Korogocho: un crescendo di miseria:



Avevo letto qualche libro di Alex Zanotelli, e "Il Vangelo della discarica" di Da­niele Moschetti, i due padri comboniani che da quasi venti anni, in successione, hanno portato la loro fede e il loro aiuto in queste aree suburbane che ricorda­no la "Città della Gioia" di Dominique La Pierre e di Madre Teresa.

sabato 27 ottobre 2012

Kenya, un verdetto che pesa sul voto


Il 23 gennaio scorso, la Corte penale internazionale (Cpi) ha trovato fondati motivi per incriminare e processare quattro degli accusati per i disordini post-elettorali del 2008. Tra questi, anche Uhuru Kenyatta e William Ruto, candidati alle prossime elezioni presidenziali.

di Brenda Nunda, da Nairobi
 

mercoledì 17 ottobre 2012

The Last Farmer


THE LAST FARMER

neoliberalism, globalization and small farmers



E' possibile guardare in streaming il film documentario direttamente da qui:

http://www.thelastfarmer.org/



giovedì 11 ottobre 2012

L'Alberghiero di Dronero per Korogocho

E' stato approvato dal collegio docenti dell'Istituto di istruzione superiore Virginio-Donadio di Cuneo-Dronero (preside: prof. Claudio Dutto) il progetto Alberghiero per Korogocho che prevede l'organizzazione di una cena nei locali dell'istituto a Dronero con destinazione del ricavato alla scuola informale St. John di Korogocho, in particolare ampliamento biblioteca e acquisto libri.

Molti docenti (110 i partecipanti) hanno forse scoperto una nuova realtà, molti già la conoscevano, molti hanno proposto altre iniziative. I colleghi dell'istituto agrario hanno già deciso di destinare parte del ricavato dalla vendita di mele e succhi di loro produzione all'LVIA di Cuneo.

Al seguente link la presentazione del progetto:  https://www.dropbox.com/s/ll3y9te4m7jiiro/IIS%20Virginio-Donadio%20PROGETTO%20KOROGOCHO%20[modalit%C3%A0%20compatibilit%C3%A0].pdf

mercoledì 3 ottobre 2012

Anche una baracca è una "casa"

"Raccolta" rifiuti su una strada di accesso a Korogocho
(scattata a luglio 2012, da Silvano B.)

È ovvio che tutti vogliono andare via da Korogocho.
Ma una vecchia mi si avvicina e mi racconta che lei qui vuole rimanere perché anche una baracca è “casa”.

Ho appena letto un bel racconto di una giornata nella baraccopoli di Korogocho...  che voglio condividere con voi !  http://www.volint.it/piroga/piroga6/Kenya,%20la%20gente%20di%20Korogocho.pdf

giovedì 30 agosto 2012

HAPO ZAMANI ZA KALE…


HAPO ZAMANI ZA KALE…
C’ERA UNA VOLTA…

IL BABBIUNO VANITOSO
Molti molti anni fa il babbuino era la scimmia più bella della foresta. Era molto agile e sapeva saltare con estrema facilità dalla cima di un albero ad un’altra.
Quando gli animali andavano a rubare nei campi dell’uomo, il babbuino riusciva sempre a svignarsela e se la rideva dei suoi cugini, scimmie e scimpanzé, che avevano la disavventura di essere catturati e malmenati in modo spietato.
Li prendeva in giro dicendo: “Oh poveretti! Come mai siete stati lenti come una tartaruga? Quando sentite il pericolo, dovete imparare ad essere veloci come me!”.
Un giorno gli animali decisero di andare a rubare il granoturco nei campi dell’uomo. Il babbuino, veloce, arrivò prima degli altri; mangiò a sazietà e si portò a casa alcune pannocchie. Poi, malignamente, ritornò verso il campo e dall’alto di un albero gridò all’uomo: “Corri,corri! dei ladri stanno per fare un banchetto col tuo granoturco!”.
L’uomo si precipitò nel suo campo e, prima che gli animali riuscissero a fuggire, ne uccise parecchi con le frecce avvelenate. Il babbuino si godette allegramente lo spettacolo di quella tragedia dall’alto del suo appostamento.
Col passare del tempo gli animali erano sempre più stanchi del comportamento del babbuino. Lo evitavano e cercavano di non parlare fra di loro, quando lui era a portata d’orecchio.
Un pomeriggio il babbuino incontrò una scimmia che stava sbucciando una banana matura, che costituiva il suo unico pasto per quel giorno. Senza dire una parola, strappò la banana dalle mani della scimmia. Se la mangiò avidamente e, quando ebbe finito, gettò la buccia sul muso della povera scimmia.
La scimmia per un momento fissò impietrita il babbuino, poi gli chiese: “Perché hai fatto questo?”.
Per tutta risposta il babbuino replicò: “Per insegnarti ad essere veloce, quando trovi delle deliziose banane da mangiare”.
La scimmia se ne andò via triste e umiliata, mentre il babbuino sghignazzava a gran voce. La poveretta raccontò agli altri animali quanto era successo ed essi si arrabbiarono molto. Decisero che si doveva metter fine al comportamento inaccettabile del babbuino.
Organizzarono una gara, che consisteva nel sedersi su di un tronco d’albero e farsi scivolare giù da una ripida collina. Chi avesse impiegato meno tempo a scendere, sarebbe stato proclamato vincitore. Venuto a conoscenza della competizione, il babbuino vanitoso era convinto di poter essere il vincitore. Desideroso di dimostrare le sue capacità superiori, si sedette sulla corteccia dura e ruvida di un tronco d’albero, sistemandosi nella posizione più comoda.
Quando il babbuino stava per partire, la scimmia gli sfilò il tronco da sotto il sedere, mentre lo scimpanzé lo spingeva giù verso il fondo della collina. Pensando che gli animali avessero fatto ciò per errore, il babbuino si mise ad urlare e a chiedere aiuto, ma i suoi appelli disperati giungevano ad orecchie sorde. Le pietre taglienti e gli arbusti spinosi lungo il ripido percorso in discesa gli procurarono un dolore insopportabile e gli scorticarono il sedere ad un punto tale che gli sembrava di stare seduto sui carboni ardenti.
Tutti i suoi tentativi di aggrapparsi alla vegetazione lungo il tragitto furono resi vani dagli animali, che continuavamo a spingerlo giù dalla collina.
Egli urlava per il dolore, mentre gli altri animali si univano alla scimmia nel deriderlo. Lo sbeffeggiavano chiedendogli: “Ma tu non sei il più forte di tutti noi?”.
Quando finalmente il babbuino fu arrivato in fondo alla discesa, si precipitò in un ruscello lì vicino, per rinfrescarsi il suo povero sedere dolorante. Ma il dolore tremendo non si calmava; e intanto gli altri animali schiamazzavano e ridevano.
“Guardate il suo sedere, di colore rosso scarlatto” – gridava ridendo la iena – “Fremo dalla voglia di vederlo saltare da un albero all’altro con le sue belle chiappe rosse!”
Il babbuino fuggì via e si nascose nel profondo della foresta. Egli fece molti tentativi per guarire le ferite con le più svariate erbe medicinali, ma finora le cure non hanno sortito un buon risultato: il babbuino è rimasto col sedere rosso e pelato.
Così ha capito che l’orgoglio e la vanità portano alla fine ad una caduta umiliante.
     (Fiaba del Kenya)

Per tutti i bambini che abbiamo incontrato o intravisto nel viaggio.
Occhi che sbucavano da ogni dove…
Per voi sorridenti, allegri, curiosi, timidi, impauriti, impolverati, scalzi, mentre giocate, correte, danzate, cantate, suonate, pascolate le capre, a scuola, per strada, nello slum, sulla schiena della mamma o portatori di altri più piccoli o di acqua o di merci, accuditi, persi, ritrovati…
  stefania

lunedì 20 agosto 2012

DIARIO DEL VIAGGIO IN KENYA 6-15 Luglio 2012


Questa è una descrizione più o meno fedele del viaggio, che ci aiuta  a rivivere momento per momento le emozioni provate e ancora, per noi, difficili da esprimere.

Venerdì 6 luglio
Il viaggio inizia per buona parte di noi a Cuneo, qualcuno viene recuperato per strada, Wanda all’aeroporto di Malpensa e la famiglia di Foligno ci raggiunge al Cairo.

Ci conosciamo poco, come ci troveremo con il resto del gruppo? Ci saranno come al solito i leaders ed i gregari?: i due incontri ai quali non tutti hanno partecipato e qualche mail per scambiarci le nostre idee sulla prevenzione della malaria, ci hanno permesso comunque di rompere il ghiaccio. Abbiamo percepito il difficile ed egregio sforzo organizzativo svolto da Roberta e ben presto facciamo gruppo attorno a Sandro, la nostra guida.
Come sarà il viaggio? Le premesse non sono delle più rassicuranti: due ore e trenta di auto per arrivare al Malpensa, quattro ore di volo da Malpensa al Cairo, un paio d’ore d’attesa al Cairo, quattro ore e trenta di volo dal Cairo a Nairobi e gran finale tre ore e trenta di navetta da Nairobi per raggiungere la zona del Meru.

Partiamo da Malpensa con un’ora di ritardo. Sorvoliamo l’Adriatico, poi ci spostiamo sull’Albania, sulla Grecia, passando tra il Pireo ed Atene…poi mi addormento.
Mi sveglio quando si vede il Cairo dall’alto: città immensa, senza verde, che ha lo stesso colore del deserto che la circonda e l’aspetto di un insieme di costruzioni Lego.
Anche l’aeroporto è immenso, o meglio, sembra non finire mai per via delle numerose postazioni di controllo passaporto e metal-detector a cui ci sottoponiamo, spesso incoerenti tra loro: ad Alessadra viene sequestrato l’accendino (forse le assistenti sociali non devono fumare?), ad altri no. Cominciamo a preoccuparci un po’ quando il nostro “capo” viene trattenuto perché in possesso di lame per traforo, nello stesso zaino teneva anche i soldi per il viaggio.
In aeroporto troviamo Concetta (che avevamo sentito via Skipe a Cuneo), suo marito Giovanni e i figli Fabio e Giulia, giunti da Roma. Così tra presentazioni e discussioni in dogana il tempo  trascorre velocemente ed anche Sandro viene “dissequestrato”.

lunedì 6 agosto 2012

Appunti di un incredibile viaggio


Finalmente il 6 luglio è arrivato; l’ho atteso con trepidazione, per me rappresenta una piccola sfida carica di motivazioni e speranze. Sento la necessità di confrontarmi con altre realtà; sono accompagnato da un sottofondo di vibrante preoccupazione per l’imminente ingresso in luoghi a me totalmente estranei per lingua, cultura, usi e costumi. Non riesco a capire se si tratta di entusiasmo adolescenziale o di preoccupazioni tipicamente senili. Ma cavolo!! ormai sono all’alba dei 48 anni, l’esperienza dovrebbe rendermi più freddo e razionale, pronto ad affrontare qualsiasi realtà, ma così non è. Comunque il momento è arrivato e quindi si parte.
E  qui, finalmente con la mente scevra da ogni impegno, vado a sbattere contro un secondo aspetto che non avevo ancora preso in considerazione: per la prima volta, dopo tanti anni, mi muovo senza la mia compagna di vita, con persone delle quali non so assolutamente nulla, frettolosamente e superficialmente conosciuti in due riunioni di preparazione al viaggio. All’inizio mi sento solo e leggermente disorientato, ma fortunatamente l’amenità di cui sono intinti i miei compagni mi aiuta ad a mandare in letargo l’orso che vive in me consentendomi di aprirmi ed integrarmi nel gruppo. È fantastico il ns. gruppo. Più volte durante il viaggio mi sono sorpreso a meditare su questo aspetto: siamo tutte persone che conducono le proprie vite in modo completamente dicotomico per condizioni famigliari, lavorative e di svago, incompatibili  per abitudini e consuetudini. Probabilmente queste dicotomie, vissute nel territorio ove abitualmente ci muoviamo, ci avrebbero piuttosto spinto in derive snobistiche impedendoci di incontrarci, confrontarci e condividere esperienze comuni; però nonostante ciò, dopo poche ore e, forse, con l’ausilio di qualche mantra-birra, si era già riusciti a demolire parecchie barriere condividendo risate e scherzi come vecchi amici, fantastico!!!!
La perfetta organizzazione messa in campo dallo staff dell’L.V.I.A. (grandi Sandro e Roberta) ci ha permesso di godere di un buon viaggio sia per l’andata che per il ritorno. Nulla da eccepire anche sul programma di viaggio vissuto in Kenya. Sin dal primo impatto all’uscita dall’aeroporto di Nairobi ho avuto conferma che l’esperienza a cui andavamo incontro non sarebbe stata banale ma bensì unica ed entusiasmante, forse non confortevolissima, ma sicuramente degna di essere vissuta in ogni suo attimo. Quello che immediatamente mi ha colpito è vedere un sacco di persone lungo il bordo delle strade; a qualsiasi ora vanno e vengono apparentemente senza meta…, poi osservando bene ti accorgi che una meta ce l’hanno e inizi a capire alcuni piccoli aspetti della vita che ti erano sfuggiti quali, ad esempio, la differenza tra i bisogni necessari e  quelli voluttuari. Chi di noi farebbe abitualmente a piedi qualche chilometro per svolgere una semplice commissione? Qui si va piedi per procurarsi acqua, cibo e legna, per trasportare ai mercati un po’ di merce da vendere, oppure incroci biciclette e/o motociclette caricate all’inverosimile di caschi di banane, legna, taniche per l’acqua, foraggio per animali, animali vivi ecc.. La presenza di tutte queste persone è una costante che ci accompagnerà per tutto il viaggio.

sabato 4 agosto 2012

Talitha Kum

Una visita che sicuramente non dimenticherò del mio viaggio in Kenya è sicuramente quella al centro Talitha Kum per i bambini sieropositivi del Saint Martin di Nyahururu.
Questo centro ospita oltre 60 bambini in modo permanente, anche se di giorno frequentano le scuole pubbliche.

Ecco la storia di una di questi bambini raccontata da una volontaria italiana che lavora lì (Alessia, dal blog Altrokenya):

"Quando Caroline e’ arrivata tutti noi siamo rimasti a bocca aperta, nessuno credeva potesse resistere per piu’ di qualche giorno viste le condizioni. Era magrissima (ha 14 anni e al suo arrivo pesava solo 14 Kg), piena di piaghe dappertutto, con la tubercolosi che aggravava la sua malattia (già ad uno stadio avanzato), non aveva la forza ne’ per parlare ne’ tanto meno per camminare, era depressa e senza più neppure la voglia di lottare per rimanere in vita. Nonostante Caroline sia una vittima di uno dei più atroci abusi che una bambina possa subire e non abbia alcuna colpa su quanto accaduto, i suoi genitori non riuscivano nemmeno a guardarla in faccia il giorno in cui l’hanno portata al Talitha Kum, un po’ per le sue critiche condizioni ma soprattutto perchè ancora sotto sotto sono convinti che in qualche modo se la fosse cercata tale situazione .. neppure loro erano disposti a darle nessuna chance. E invece Caroline, ci ha piacevolmente sorpresi tutti: ha ripreso a mangiare, aiuta le “mamme’ della casa nelle pulizie mentre gli altri bambini sono a scuola, socializza con tutti i membri, grandi e piccoli, della famiglia del Talitha Kum, ed è riuscita a fare, con gran sorpresa di tutti, gli esami della fine dell’ottavo anno delle scuole primarie nonostante non fosse stata a scuola negli ultimi quattro mesi. La sua determinazione è stata invidiabile: era troppo debole per andare a scuola ma nonostante tutto passava le sue giornate a studiare perchè non voleva assolutamente ripetere l’anno e alla fine … ce l’ha fatta."

domenica 29 luglio 2012

Mukiri


La cantoria della chiesa di Mukululu- Kenya
Domenica 8 luglio abbiamo preso parte ad una partecipatissima messa nella chiesa di Mukululu: inutile dire che si è trattata di una esperienza indimenticabile.
In questo post vorrei soffermarmi sulla figura di fratel Giuseppe Argese, costruttore di questa chiesa.

(dalla rivista Missioni Consolata:) "Quando aprì il campo di Mukululu, fratel Argese poteva condividere la sua fede con una manciata di cattolici nella cappella di fango. Non ha avuto tempo di fare catechesi o altre attività di evangelizzazione diretta; eppure oggi la comunità conta più di 2.500 fedeli. La capanna originaria è rimpiazzata da una bellissima chiesa, consacrata nel 1986, 75º anniversario dell’evangelizzazione del Meru, dal vescovo Silas Njiru, che l’ha dichiarata santuario diocesano dedicato alla Madonna Consolata. E la chiesa è diventata troppo piccola per accogliere tutti la domenica. Così, dal 1996, ha iniziato ad ampliarla.
Il santuario è cresciuto insieme alla comunità e in base ai ritmi di lavoro imposti dalla costruzione dell’acquedotto; si è innalzato pietra su pietra, in un’armoniosa combinazione di colori diversi: pietre marroni, rosse, rosa, gialle, nere, bianche... tagliate dagli scalpellini, come nella costruzione delle cattedrali medievali, ciascuna con la sua forma particolare, secondo la posizione specifica da occupare nell’edificio: eloquente immagine della chiesa vivente, dove ogni singola persona è una pietra viva, posta sulle fondamenta della pietra angolare che è Gesù Cristo."

 (da Ithanga.com) "La gente del Kenya ha ribattezzato Fratel Argese “Mukiri”, il silenzioso: uomo di poche parole, ma di tante opere, portate a compimento per il bene della sua gente. E’ la fine degli anni ‘50 quando Fratel Argese entra in contatto con la Tuuru Home for Disabile Childrens, una struttura che accoglie e cura bambini poliomielitici in condizioni assai precarie anche a causa della mancanza di acqua.   Da qui prende il via l’attività di Mukiri con il Tuuru Water Scheme, che oggi, dopo anni di ricerche e tentativi, non solo procura l’acqua ai bambini disabili, ma all’intera popolazione di Nyambene.
Tante gocce danno… la vita: questa è l’intuizione geniale di Mukiri, che diventa ragion pratica nella escavazione di lunghi tunnel sotterranei che raccolgono l’acqua di scarto delle piante.
Queste lunghe gallerie trasudano gocce, che, raccolte in canalini di scolo, diventano rigagnoli. Uniti insieme formano una ingente riserva idrica che disseta gran parte della popolazione.
Ma Mukiri non si ferma qui, cammina in foresta: giornate intere a cercare sorgenti, che diventeranno la premessa del Tuuru Water Scherme. Il percorso naturale delle acque di sorgente si trasforma nei percorsi artificiali costruiti da Mukiri.
Per calcolare distanze, pendenze, punti di riferimento Fratel Argese traccia dei percorsi avanti e indietro, per giorni.
L’acquedotto di Nyambene oggi si estende per oltre 250 Km, fornendo più di 8 milioni di litri d’acqua al giorno a più di 230 mila persone, a 43 mila capi di bestiame e 21 mila tra capre e pecore. Migliaia di persone, prima costrette ad impiegare intere giornate per raccogliere pochi litri d’acqua, ora vi hanno accesso, grazie al sistema che canalizza piccoli ruscelli e corsi d’acqua. A Tuuru ci sono due fontane pubbliche con acqua potabile e più di mille connessioni private all’acquedotto.

La salute e l’igiene delle persone e del bestiame sono notevolmente migliorate. Il Tuuru Water Scheme ha portato frutti, ortaggi ed anche vigneti; ha dato lavoro e quindi promozione umana. Il Tuuru Water Scheme è in realtà solo l’inizio di una lunga attività di Fratel Argese che tuttora non si è fermata e che ha portato alla pianificazione e costruzione di numerosi lavori riguardanti la raccolta e la distribuzione dell’acqua, come gli acquedotti di Engoji, Murinya-Kirirua, Nkabone, Riiji, Mukinduri, Tigania, Isolo, Nkubu, Nthambiro, Timau e Kathita-Gatunga."

Giuseppe Argese (al centro) con Enrico e Sandro (LVIA)
domenica 8 luglio 2012


venerdì 27 luglio 2012

Son passati poco più di 10 giorni dal nostro rientro a casa.


Son passati poco più di 10 giorni dal nostro rientro a casa.
Casa, Italia, Occidente, le nostre abitudini, la routine, le sicurezze, tutto è rimasto qui ad attenderci; in fondo in questo tempo qui non è successo nulla; i soliti scandali politici, lo spread, qualche altra donna uccisa da un folle, le temperature record di ogni estate…

Mi sveglio ancora tal volta al mattino con qualche fuggevole traccia di un sogno in cui compare qualche viso dalla pelle scura.
Mi ha molto colpito questo particolare, prima di questo viaggio non avevo mai sognato persone di colore.
Prima di questo viaggio i loro visi mi sembravano più o meno tutti uguali,  avevo si e no una decina di stereotipi dei loro visi, eppure ho  avuto amici, compagni di università, ho  persino una nipote di pelle scura. Ho fatto altri viaggi in Africa in precedenza ma ero una turista e non ho mai appreso neppure una loro parola prima, neppure la più ricorrente o banale.
Non sapevo il significato di musungo.
Mi sfuggivano i particolari delle loro espressioni, le tante forme dei loro visi; la sensazione di avere tutti i sensi all’erta nel  creare un delicato contatto con  bimbi incontrati casualmente lungo un infinito e assolato stradone dove i viaggiatori non si fermano mai…bimbi giunti guardinghi e curiosi da qualche remota capanna  lungo la statale, piccoli villaggi fuori da ogni meta turistica.
Bimbi incuriositi dal nostro bianco con le loro manine a toccare questi  nostri strani lisci capelli; vederli ridere tra loro che certo dovevano trovarci così buffi e strani, quasi alieni.
Ad essere diversi eravamo noi.
Noi ad essere osservati, scrutati, a sentirci  toccare le nostre mani e braccia nelle loro esplorazioni.
Non mi era mai capitato di sentirmi diversa  per qualche aspetto che ho sempre considerato banale o scontato per me e per i miei simili, da sempre.
Inevitabile immaginarmi lo choc che avranno loro la prima volta che mettono piede in occidente.
Loro che sanno molto meno di noi di quanto noi sappiamo di loro.
Noi che ci prepariamo ad un viaggio, compriamo la Lonely Planet e studiamo il percorso con Google map, possiamo sapere di loro quasi tutto.
Molti bimbi là erano felicemente sconvolti nel vedersi ritratti in una foto o in un video, forse per alcuni era la prima volta.
Là dove non ci sono tv. Neppure per noi.
La sera senza tiggì.
Non restava altro che posare l’attenzione su quel che c’era, il mondo, il tempo e noi stessi.
Sono partita senza conoscere nessuno dei miei compagni di viaggio.
Un paio d’ incontri per presentarci tra noi, per prepararci al viaggio.
Condivisioni sommarie, percezioni generiche, a pelle qualche approccio più simpatico e qualcuno più difficile, ma ignari totalmente l’uno dell’altro.
In quelle sere senza tv, ci siamo raccontati, abbiamo condiviso le impressioni, le incredulità e soprattutto abbiamo riso molto, abbiamo giocato a farci scherzi come ragazzini, abbiamo scoperto quanto è bello stare insieme per il piacere di produrre allegria l’uno all’altro. L’allegria nostra, il piacere della compagnia. Quello che non si compra. Quello che non si ordina.
Lontani da logiche di competizione, di status…quasi mai si è parlato dei nostri lavori ad esempio, se non in passant o per raccontare qualche episodio buffo. Quasi mai di politica ed economia, eppure siamo tutte persone molto informate e in vario modo impegnate nella nostra vita sociale. Eravamo invece molto presenti  a quel che  accadeva ogni giorno, agli incontri e alle esperienze che ci succedevano.
Soprattutto eravamo immersi, che lo volessimo o meno, nella “loro” cultura.
L’ho capito solo dopo.
Respiravamo un tempo senza tempo, un tempo diverso in cui non si deve correre, non si deve consegnare. Certo, questo succede un po’ in tutte le vacanze si può dire, ma intendo dire una cosa diversa. Osservare una povera scuola di campagna con banchi  fatti a mano, assi di legno e chiodi, quaderni foderati con carta da pacchi,  libri consunti come mai mi è capitato di vedere e trovarmi a pensare : “quanto poco ci vorrebbe per portare qui almeno un solo un pc …quanto poco ci vorrebbe per  portare qui libri nuovi…quanto poco ci vorrebbe a…”
Questo poco che noi risolveremmo con un semplice gesto da noi e che invece  per questi luoghi comporta  un tempo infinito.
Quasi certamente tra un anno in quella scuola saranno ancora così, con la stessa dotazione.

Vedere più e più volte ripetersi lo stesso scenario, sentire la nostra mente riproporre lo stesso pensiero interventista, alla fine genera quel senso di limite; quella percezione che si può fare poco ma si può fare, che ciascuno di noi può fare poco, la goccia nell’oceano che citava Silvano, ma pur sempre una goccia; poco per volta si comincia ad accettare quindi una condizione di tempo dilatata, infinita, a noi sconosciuta.
Perché noi il tempo lo riempiamo, di azioni .
Perché i nostri bisogni normalmente li sopportiamo poco e dobbiamo soddisfarli, se no cominciamo a soffrire e spesso tutta la nostra vita corre dietro alla soddisfazione di sempre nuovi bisogni.
In Africa incontriamo bisogni tanto antichi quanto vitali e il tempo ci appare in una dimensione potente e non “controllabile” dalle nostre azioni  o mirabili pianificazioni.
Diventiamo piccoli, impotenti e umili.
Il tempo è oggi.
Mi sto lasciando accompagnare da questo pensiero.
Ho avuto difficoltà a parlare di questo viaggio , ho sentito un poco la stessa ritrosia nell’iniziare queste righe,  parlarne  mi fa serpeggiare la sensazione di consumarlo, scriverne sollecita l’orrore di farne una leziosa elegia…
Qualcosa di prezioso che intuivo prima di partire ma di cui non ero certa, è stato incontrato, è in fondo alla mia anima, lo sento e voglio salvaguardarlo.

Ho scritto tutto questo per incoraggiare altre persone a fare questo viaggio,  ad avere un’esperienza non turistica dell’Africa,  ad entrarci dentro, anche solo per poco. Questi “incontri reali” che le  associazioni umanitarie promuovono sono il miglior regalo che vorrei fare alle persone tutte, soprattutto a quelle  cui voglio bene e ai giovani.

 Grazie a Lvia, a tutti i miei compagni di viaggio  che mi hanno permesso di sentirmi così bene e a tutti i cuori incontrati che hanno fatto sentire così vivo il mio.

Monica

lunedì 23 luglio 2012

Una goccia nell'oceano...


Lake Bogoria  - July 13, 2012

Lo scorso mese di luglio siamo stati una decina di giorni in Kenya per un viaggio di conoscenza-solidarietà organizzato dall’LVIA, l’organizzazione di volontari laici che ha sede a Cuneo. Sono stati dieci giorni bellissimi durante i quali abbiamo condiviso con compagni di viaggio che non conoscevamo le stesse emozioni, gli stessi dubbi, gli stessi propositi.

Abbiamo visto con i nostri occhi cosa vuol dire “dare pane” (e acqua) a gente che ne è priva. Dall’acquedotto che ha portato acqua a più di 250.000 persone, al progetto per il recupero dei ragazzi di strada, al centro che ospita i bambini nati sieropositivi, alla cooperativa di agricoltori di the, alla cooperativa di donne tessitrici e altro ancora. Tutti modi per “dare pane” a gente abituata a vivere con poco, ma felice e pronta a condividere il poco che possiede.

Dopo questa esperienza, breve ma molto intensa e che consiglierei a chiunque, riusciamo a comprendere meglio le parole di Madre Teresa: “Quello che noi facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non lo facessimo l’oceano avrebbe una goccia in meno”. Ed è proprio vero, il lavoro svolto da missionari, volontari, cooperanti può essere solo una goccia per noi abituati a vivere considerando le cose superflue come necessarie, ma in quelle realtà diventa un fiume che porta vita!

Dare pane può costare poca o molta fatica, ma sicuramente quello che si riceve in cambio è immensamente di più! 
È molto più difficile cambiare il nostro stile di vita, impregnato di routine e frenesia e con i tempi scanditi dalla corsa ad obiettivi troppo spesso effimeri. Siamo troppo abituati a vivere con l’obiettivo della quantità, della crescita a tutti i costi e non ci accorgiamo che così facendo perdiamo di vista la qualità della vita, la gioia del dare (e del ricevere), troppo abituati a dare tutto per scontato e dimenticandoci persino di ringraziare per il dono che tutti i giorni riceviamo.

Devo ammettere che io stesso ero un po’ riluttante a questo viaggio, abituato com’ero ad un altro tipo di vacanza… devo perciò ringraziare mia moglie Maria Claudia per avermi “convinto” (praticamente obbligato!) a partire… ho veramente ricevuto tanto da questa breve visita in Kenya e voglio credere che questo viaggio sia solo la prima tappa di un ben più lungo cammino!

Silvan 

mercoledì 18 luglio 2012

CARTINA DEI LUOGHI VISITATI

Ecco la cartina (deformazione professionale...) con evidenziati i posti che abbiamo visitato.
Ciao
Silvio

martedì 17 luglio 2012

CIAO A TUTTI...

Ho aperto questo blog dove possiamo scrivere e scambiarci idee.
Se vi va fatemi avere materiale e links che volete inserire.
Ciao a tutti.
Silvio