domenica 17 marzo 2013

Le elezioni presidenziali in Kenya


Internazionale 991
15 marzo 2013 - pag.40
Uhuru Kenyatta è il nuovo presidente del Kenya. Con il suo vice, William Ruto, è riuscito a convincere più del 50 per cento dei keniani che con la sua coalizione al potere ci sono buone probabilità che la Rift Valley viva un lungo periodo di pace. Gli elettori sono consapevoli di questo.

I mezzi d’informazione internazionali forse non l’hanno capito. Per metà degli abitanti del paese questo voto è stato una scelta di sicurezza. Nessuno, per esempio, crede che la Corte penale internazionale – pronta a processare Kenyatta e Ruto per crimini contro l’umanità – abbia intenzione di andare !no in fondo. E che conosca a sufficienza la politica keniana.

Il nostro paese non è, e non è mai stato, uno di quei paesi di cui ama parlare la Cnn, tenuto insieme con la colla, gli spilli e il paternalismo dell’occidente. Tre anni fa ci siamo andati vicino. In Kenya c’erano bar che si chiamavano Ocampo, come il procuratore della Corte penale. C’era una grande fiducia nella giustizia globale. Il procuratore Luis Moreno Ocampo si sarebbe paracadutato qui con il suo seguito di investigatori internazionali per portare via i colpevoli e processarli e noi saremmo stati a posto.

Che ingenuità. Oggi c’è la possibilità reale che nessuno di quei processi finisca come vorremmo. Abbiamo visto come si è comportato in passato quel tribunale e non ci fidiamo più. Ha sbagliato con la Repubblica Democratica del Congo. E ancora di più con il Sudan. Quando eravamo più vulnerabili, è arrivato qui come un ciclone. Ora la Corte penale internazionale sembra impotente. Ma, soprattutto, sembra che voglia usare il Kenya per legittimarsi come istituzione internazionale.

E noi non ci teniamo a partecipare a questi esperimenti. Naturalmente intendiamo collaborare con la Corte. Ma siamo in molti a non credere più in quell’istituzione. Secondo me, dovrebbe rivedere la sua organizzazione e tornare quando sarà cresciuta e avrà condannato qualcuno che non sia africano.

Il Kenya è un posto reale, con una politica reale. Negli ultimi cinque anni, ci siamo resi dolorosamente conto che la crisi del 2007-2008 – quando gli scontri postelettorali provocarono 1.200 morti – ha aperto la possibilità che il Kenya fosse trasformato in una repubblica delle banane dai suoi preoccupati partner economici.

Abbiamo imparato, dalla nostra storia e da ciò che è successo negli ultimi tempi nel continente, che la Corte penale internazionale è molte cose, ma è anche la nuova congrega di missionari che viene a salvarci da noi stessi con lo sguardo pieno di compassione e la Bibbia in mano.

Per 45 anni, nel bene e nel male, il Kenya è rimasto stabile, ha pagato i suoi stipendi, in certi periodi ha zoppicato, in altri è andato a gonfie vele. La crisi umanitaria seguita alle elezioni del 2007 è stata un territorio inesplorato, un momento in cui è stata messa in dubbio la nostra stessa esistenza, come è capitato a tanti paesi del mondo. Abbiamo smesso di essere ingenui, abbiamo smesso di dare per scontato che dovevamo lottare per la nostra esistenza e la nostra vitalità. Abbiamo imparato, e continuiamo a imparare. Siamo felici, molto felici, di vivere in un mondo sempre più multipolare.

Ora che la nostra economia ha ripreso a crescere stringeremo altre alleanze con altri paesi. Sono passati i tempi in cui gli ambasciatori europei dicevano ai keniani cosa dovevano fare e perché. Non vediamo l’ora di stringere rapporti più solidi con l’India, di intensificare gli scambi con la Cina e con il Brasile.

Non vogliamo più essere il bel paese delle spiagge e dei safari che abbiamo accettato di essere per troppo tempo. L’occidente dovrà aspettarsi un atteggiamento più deciso da parte del nuovo governo.


Questo è uno dei motivi per cui Uhuru Kenyatta ha vinto le elezioni. Il suo avversario, Raila Odinga, ha contestato il risultato elettorale. Il suo partito si appellerà alla corte suprema del Kenya. È una bellissima notizia. Lasciamo che il nostro processo elettorale sia esaminato da un tribunale. Lasciamo che la nostra democrazia cresca e si raffoorzi. Se sarà un tribunale a confermare il diritto alla presidenza di Kenyatta, non mi dispiacerà.

Ci sono molte domande che potremmo farci su queste elezioni e sui nostri nuovi leader. Ma per me, il risultato più importante del voto è che nessuna delle principali coalizioni potrà calpestare i diritti dell’altra o i nostri. Se non riuscirà a unire il paese, Kenyatta fallirà. E anche se userà il potere per portare avanti gli interessi di alcuni gruppi etnici a spese del resto del paese, soprattutto del Kenya occidentale e della costa.


Queste elezioni hanno spazzato via molti rami secchi. Sono arrivati centinaia di giovani politici coraggiosi di tutte le regioni del paese e molte donne. Sono ottimista, anche se so che come in ogni giovane democrazia ci sarà un po’ di confusione e qualche collaborazione imbarazzante. Ma soprattutto, sono sollevato all’idea che sia finita, voglio solo la pace. Oggi voglio dire: bravo Kenyatta, prometti bene. Domani ricomincerò a prenderlo in giro su Twitter. Sono già stanco di fare la faccia contenta, voglio solo la pace.


di BINYAVANGA WAINAINA scrittore e giornalista keniano, vincitore del Caine prize for african writing. Ha pubblicato il libro One day I will write about this place (Graywolf Press 2011) e dirige il Chinua Achebe center for African writers and artists del Bard college, negli Stati Uniti.

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